Partiamo dall’ultimo dato, quello più recente, diffuso a fine giugno dalla Commissione europea. Un vero e proprio grido d’allarme riferito al mare Mediterraneo perché le cifre dicono che nel mare di casa nostra il 96% delle specie di fondale è soggetta a uno sfruttamento eccessivo, mentre per gli stock di acque intermedie (come sardine, acciughe, ecc.) il sovra sfruttamento è del 71%. Sovra sfruttamento di uno stock significa che ogni pesce pescato non viene sostituito da un altro pesce e dunque progressivamente si va verso l’esaurimento di quella data specie.
Il concetto è simile al tasso di natalità per gli umani. Se ogni coppia fa due figli (a due ne subentrano due), la popolazione resta stabile. Se una coppia fa un figlio solo la popolazione cala, se i figli sono tre aumenta.
Dunque anche se mangiar pesce fa bene e il pesce sta sempre più entrando tra i consumi abituali degli abitanti del nostro pianeta, il punto su cui occorre concentrare l’attenzione è che, come per altri tipi di consumi (alimentari e non solo), occorre porsi con forza il tema della sostenibilità di tutta la filiera che porta il pesce sulle nostre tavole, per evitare che le scelte che si fanno oggi si trasformino nell’impossibilità di mangiare le stesse cose per le generazioni che verranno.
Il 28,8% delle specie ittiche è sovra sfruttato Se il dato di un mare chiuso e relativamente piccolo come il Mediterraneo è quello che abbiamo visto, spostando lo sguardo su una dimensione globale occorre rifarsi ai dati della Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa proprio di cibo e alimentazione, che annualmente rileva lo stato di salute delle risorse ittiche del pianeta. Ebbene nel rapporto del 2014, la Fao certifica come il livello di stock di pesce sfruttati in maniera eccessiva è del 28,8%. Si tratta di una cifra che pur con andamenti non sempre lineari, vede una progressione molto rilevante rispetto al 10% del 1974, nel senso che, da allora, è quasi triplicata.
Il picco più negativo si è avuto nel 2008 con un 32,5% di specie pescate in eccesso. Poi c’è stato un piccolo recupero, ma guai a pensare di abbassare la guardia. Oggi nel mondo (dato 2012) si pescano ogni anno 91,3 milioni di tonnellate di pesce. Di cui 82,6 milioni di tonnellate in mare e 11,1 milioni in acque interne come fiumi e laghi.
“Il re è nudo – spiega Marco Costantini, responsabile del programma mare del Wwf – nel senso che le cifre degli organismi mondiali ci mettono davanti alla necessità di un impegno forte a tutti i livelli, di azioni coordinate che consentano di invertire la rotta”. Perché anche se la sensibilità dei consumatori è aumentata (come vedremo dopo) e tante campagne si sono sviluppate su questi temi, ancora molto resta da fare.
Però deve esser chiaro che invertire la rotta è possibile perché la stessa Commissione Europea, assieme ai dati sul Mediterraneo, ha diffuso anche quelli su mar Baltico, mare del Nord e Atlantico nordorientale. Ebbene qui, grazie a piani rigorosi sulle catture possibili, che hanno coinvolto in primo luogo gli stessi pescatori e a controlli successivi, la quantità di specie sovra sfruttate si è ridotta drasticamente dall’86% al 41%.
A proposito di queste cifre, va detto che si tratta di calcoli complessi e difficili, non disponibili nella stessa misura su tutte le aree del pianeta, ma comunque frutto di un lavoro sempre più attento ed esteso, specie per i paesi come quelli europei e del nord America. Per completare il quadro e capire il livello di formidabile pressione che si sta esercitando sulle risorse ittiche complessive, è importante ritornare al quadro d’insieme fornito dalla Fao. Detto che per un 28,8% dei tipi di pesce siamo al sovra sfruttamento, per un altro 61,3% di specie siamo in pieno sfruttamento, il che significa una popolazione che resta stabile e dunque non consiglierebbe di aumentare i livelli di pescato. Solo per un 9,9% delle specie siamo a un livello di cattura che ha ancora margini per poter crescere.
Il boom dell’acquacoltura Tutto questo rappresenta però solo la metà dei volumi relativi al consumo di pesce. Infatti, con una crescita davvero esponenziale, agli animali pescati in mare va sommata la quota di animali allevati con la tecnica dell’acquacoltura. Dall’acquacoltura (di cui parliamo anche nella scheda in queste pagine), sono infatti stati ricavati, nel 2012, 66,6 milioni di tonnellate di prodotto di cui molto più della metà viene dalla Cina (seguita da Indonesia e India). Erano 49 i milioni di tonnellate prodotti nel 2007 (dunque un + 35% in 6 anni). Acquacoltura significa specchi delimitati di acqua, in mare vicino alla costa, ma anche in laghi o fiumi, in cui vengono allevati pesci, molluschi o crostacei. Lo sviluppo dell’acquacoltura è legato proprio alla ricerca di una maggior sostenibilità della filiera legata al consumo di pesce nel mondo. Ma anche qui occorre avere attenzione. “L’acquacoltura è uno strumento che non può essere considerato comunque come una soluzione – spiega Marco Costantini del Wwf – perché ha un suo impatto e dunque occorre avere attenzione alla sostenibilità degli impianti, alle tecniche utilizzate, alla gestione su basi scientifiche dei progetti”.
“È però indubitabile – spiega Paolo Bray, fondatore di Friend of the sea – che, essendo l’acquacoltura una tecnica relativamente recente, nel giro di 20 anni si sono registrati passi avanti notevoli, riducendo gli impatti. E ancora molto si può fare”. E difatti per l’acquacoltura come per la pesca esistono certificazioni di qualità e sostenibilità sempre più diffuse.
Uno dei problemi che si porta dietro l’acquacoltura è che per nutrire i pesci in larga parte si usano conserve e prodotti a base di pesce. Fatte le debite proporzioni, si ripropone un tema simile a quello degli impatti derivanti dal consumo di carne. Infatti nel 2012 su 158 milioni di tonnellate di prodotti ittici complessivamente prodotti al mondo (91,3 pescati e 66,6 provenienti da acquacoltura), 21,7 milioni di tonnellate, cioè poco meno del 14%, non è stato destinato all’alimentazione umana. A parte una quota destinata a oli e creme, il resto è diventato mangime per altri pesci. “Va detto – spiega ancora Paolo Bray – che la quantità di alimenti utilizzata nell’acquacoltura è stata ridotta progressivamente negli anni, grazie all’evoluzione delle tecniche e dei prodotti utilizzati”.
D’altro canto l’acquacoltura, che ovviamente si adatta ed è possibile solo per alcuni tipi di pesci, elimina tutti i problemi derivanti dalle tecniche di pesca (come quella con le reti a strascico) che danneggiano i fondali.
Marchi di certificazione e campagne aiutano Come visto, la scatoletta di tonno che apriamo, così come la sogliola o il branzino che ci cuciniamo, dietro di sé raccontano problemi piuttosto complessi. Problemi nella cui gestione occorre cercare di tenere insieme le esigenze alimentari di milioni dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, il fatto che la pesca sia una potente industria, ma anche il lavoro e la fonte di sostentamento per milioni di persone specie nei paesi più poveri (sui 4,72 milioni di barche da pesca esistenti al mondo, la Fao stima che il 79% sia sotto ai 12 metri).
Poi, non certo da ultimo viene il tema della sostenibilità, cioè del governare questi processi salvaguardando le risorse per il futuro e tutelando la biodiversità. “I pesci che nuotano nei mari sono davvero tanti, quantità difficili anche solo da immaginare – spiega Marco Costantini del Wwf –. Per questo sembra difficile pensare al rischio di esaurire una risorsa come questa. Io però faccio un esempio partendo da mia figlia. Per lei sino a poco tempo fa contare sino a 10 era pensare a qualcosa di davvero grande. In poco tempo il limite si è spostato, è diventato 50, poi 100 e così via. Anche noi dobbiamo ricordarci, quindi, che una cosa che sembra enorme e lontana, può presto diventare familiare. Non dico questo per spaventare, ma per dare stimoli a un impegno che deve essere di tutti, inclusi i consumatori, che devono guardare alle certificazioni, chiedere a chi vende loro un prodotto da dove viene, non comprare pesci di taglia troppo piccola, chiedere prodotti di stagione. Per capirci, informarsi vuol dire che a volte il pesce che mangiamo al ristorante e che pensiamo venga dal Mediterraneo è stato sostituito da pesce pescato magari in Atlantico, al largo delle coste africane o chissà dove. Magari è ottimo pesce, certificato e buono, ma è bene sapere tutte queste cose”.
L’ultimo tassello di questa nostra ricostruzione legata al mondo della pesca a livello mondiale contiene le note più positive. Perché, a fronte dei dati preoccupanti che abbiamo visto sul sovra sfruttamento di buona parte delle risorse ittiche, già da diversi anni si è sviluppata l’azione di associazioni ambientaliste e gruppi di cittadini, tesa proprio a promuovere e sollecitare una pesca più sostenibile e attenta. Una delle conseguenze di questo ampio movimento è lo sviluppo di una serie di certificazioni sulle modalità di pesca, che si sono diffuse in tutto il mondo.
Proprio l’italiano Paolo Bray, vant’anni fa fondatore di Friend of the sea e dirigente di Dolphin safe è stato uno dei protagonisti di questa crescita positiva e importante: “Come Friend of the sea oggi certifichiamo oltre 400 aziende di 50 paesi diversi. I risultati ottenuti in questi decenni sono stati importanti e positivi. Oggi il 95% delle industrie mondiali è certificata Dolphin safe, il che significa migliaia e migliaia di questi animali, che prima venivano uccisi perché finivano nelle reti durante la pesca di altre sepcie come il tonno, vengono ora salvati ogni anno. La sensibilità verso la certificazione è più forte nei paesi occidentali, dove anche catene della grande distribuzione come Coop esigono il rispetto di standard precisi. Ma anche nei paesi in via di sviluppo o emergenti, l’attenzione cresce. Dunque la strada imboccata può produrre ulteriori risultati e l’attenzione dei consumatori e dell’opinione pubblica è decisiva. Ma guai ad abbassare la guardia”.
settembre 2014