Una volta raggiunto il giacimento di gas non convenzionale, il pozzo, che può estendersi anche per migliaia di chilometri, da verticale si fa orizzontale (tecnica risalente a una trentina di anni fa) e prosegue poi come un’arteria da cui si diramano tanti vasi capillari.
Qui entra in gioco la forza distruttrice del fracking (o hydrofracking), l’idrofratturazione della roccia fatta pompando acqua miscelata con sabbie e composti chimici a 16.000 litri al minuto e con l’aiuto di microesplosioni. A parte (si fa per dire) gli sconvolgimenti tettonici, sotto accusa sono soprattutto gli agenti chimici: centinaia di composti tra cui acrilamide, benzene e benzetilene, metanolo, isopropano, diesel e acido nitrilotriacetico, parte dei quali classificati come agenti mutageni e cancerogeni, nocivi per la salute e tossici per gli organismi acquatici.
Dal processo in risalita possono liberarsi metali pesanti e radon. Inoltre il gas s’incunea nel condotto del pozzo rivestito di cemento a protezione della falda acquifera soprastante, e c’è da augurarsi che il cemento regga. Ultimo ma non per ultimo, quando il fluido iniettato fuoriesce si possono verificare incidenti come lo sversamento in mare dal Pozzo Macondo, a 1.500 metri di profondità, sotto il Golfo del Messico, iniziato il 20 aprile 2010 e terminato 106 giorni più tardi: il più grande disastro ambientale della storia americana.
Il problema delle infiltrazioni
A 30 anni di attività in circa il 50% dei pozzi rivestiti internamente di cemento si verificano delle infiltrazioni col rischio di contaminare le falde acquifere. È quanto si legge nei rapporti tenuti nascosti dalle compagnie estrattive