Ambiente

Clima, alla conferenza di Parigi in cerca di un accordo

Deserto.jpgPer due settimane, dal 30 novembre all’11 dicembre, Parigi presiederà la ventunesima Conferenza delle parti (Cop21) delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici. Vi sono invitati 195 paesi, Per cercare un’intesa che finora è mancata.

Sì, perché se le sofferenze del pianeta sono sempre più evidenti, sull’altro fronte c’è l’impotenza sostanziale dei popoli, che non riescono a trovare accordi vincolanti globali capaci di contenere sotto i 2 gradi (soglia considerata di relativa sicurezza) entro la fine del secolo (rispetto al periodo pre-industriale), il riscaldamento del pianeta Terra. Riscaldamento che invece procede a una media del doppio: viaggiamo a 4 gradi di aumento, per la precisione fra i 3,7 e i 4,8 °C, con concentrazioni di CO² equivalente comprese tra il doppio e il triplo rispetto ai 450 ppm, cioè parti per milione, assunte ad obiettivo sostenibile.

“In un mondo a +4 °C i cambiamenti climatici diventano il driver dominante dei mutamenti degli ecosistemi – osserva allarmato Edo Ronchi, presidente Fondazione per lo sviluppo sostenibile – superando la distruzione degli habitat come la più grande minaccia alla biodiversità”.

A preoccupare non sono soltanto i fenomeni atmosferici estremi collegati – oltre che alla riduzione della biodiversità – alla povertà e all’aumento delle diseguaglianze per via degli enormi costi dell’adeguamento climatico (dai 100 miliardi di euro annui nel 2020, ai 250 miliardi nel 2050 e solo in Europa, stime della Commissione Europea). Assistiamo infatti alle cosiddette “migrazioni climatiche”, che vengono in parte confuse con migrazioni economiche e/o politiche, a partire dalla recente crisi umanitaria che l’Ocse ha definito “senza precedenti” calcolando in un milione i rifugiati entro il 2015 in Europa.

Ma sono già oltre 200 milioni (Rapporto Onu) le persone colpite ogni anno nel mondo dai disastri legati al clima, ed è già cominciata la diaspora dei cosiddetti “profughi climatici”, che sfollano da isole e zone costiere spinti anche dalla riduzione dei raccolti e non solo dalla guerra: potremmo essere solo all’inizio degli sconvolgimenti.

La realtà dolorosa è questa ed è anche che la 21a Conferenza delle parti (Cop21), organizzata dall’Onu a Parigi (“Per un accordo universale sul clima”, dal 30 novembre all’11 dicembre), rappresenta una sorta di ultima spiaggia per l’umanità chiamata a un “radicale cambio di rotta”.

Non esita a dirlo in questi termini Nicholas Stern, già capo economista della Banca Mondiale e oggi presidente del Grantham Research Institute: “Serve una riduzione di 7-8 volte entro il 2050 delle emissioni pro-capite di gas serra – snocciola il professore intervenuto a Roma al meeting internazionale ‘Verso Parigi 2015’ – emissioni che oggi sono di 7 tonnellate annue di CO² equivalente in Europa, e di 20 negli States. Dobbiamo scendere a 2 tonnellate pro-capite per arrivare a zero nella seconda metà del secolo, in virtù di un grande piano di decarbonizzazione profonda”.

La decarbonizzazione Per i maggiori esperti mondiali di “climatic change” non ci sono dubbi: un quarto di secolo dopo la prima negoziazione sul clima del 1992 a Rio de Janeiro, Parigi 2015 sarà come il tappone del tour de France, decisiva ai fini del risultato finale. Tra i più convinti c’è un guru dello sviluppo sostenibile come Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University, consigliere di Obama e del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon sugli Obiettivi di sviluppo del millennio. “Ovunque vedo crisi legate al clima – dice Sachs – e questo è solo l’inizio, peggiorerà”. Poi indica il bacino del Mediterraneo tra i luoghi più fragili e vulnerabili in assoluto della Terra. “Mentre per altre aree ci sono dati discordanti, per l’Europa del Sud tutti i modelli matematici dicono la stessa cosa: che l’area sarà sempre più calda e secca. Siete sulla linea del fuoco“…

Il carbone che ha creato la nostra civiltà, ora può distruggerla. Gli scienziati non usano le mediazioni e le aperture della politica sull’argomento. Per avere un’idea del punto in cui siamo, se nel 2070 guidassimo tutti auto elettriche e fossimo riusciti a decarbonizzare l’elettricità, lasciando il petrolio sotto terra o catturandone le emissioni in atmosfera, non avremmo ancora la certezza di rimanere sotto i 2 gradi di aumento del “global warming”. Sachs, che ha fatto i calcoli per l’Onu, dà la probabilità al 70%, non di più. Per lui, che è favorevole al nucleare pur di sbarazzarsi del carbone come principale fonte di energia dell’umanità, Parigi è davvero “l’ultima chance” per riprenderci il limite non superabile dei 2 gradi. Pone infatti questa richiesta in cima alla sua personale lista sottolineando che “i contributi nazionali al 2030 devono essere vincolanti, e al massimo in tre anni serve un piano di decarbonizzazione profonda”. L’enfasi, gira e rigira, cade sempre lì.

La tappa decisiva Ma come si presenta il mondo al summit di Parigi sul clima? Con l’enciclica “verde” di papa Bergoglio sullo sfondo e 17 obiettivi di sviluppo sostenibile sul tavolo da raggiungere entro il 2030; oltre a una serie di Indc (i contributi nazionali) ben poco rassicuranti a dire il vero sulla difesa dell’ambiente e della vita dell’uomo.

Sono infatti insufficienti, numeri alla mano, gli impegni preliminari formalizzati dai governi che li hanno inviati alla Conferenza di Parigi. Nemmeno tutti, a dire il vero, lo hanno fatto. Francesca Mingrone, della onlus Italian Climate Network, fa notare che “solo 148 paesi su 195 hanno provveduto entro la scadenza che era fissata al 1° ottobre!”.

Ebbene, sulla base di tali negoziati preliminari l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato che le emissioni mondiali di CO² continuerebbero a crescere dell’8% (tra il 2013 e 2030) anziché ridursi, se vogliamo davvero rientrare nei 2 gradi. “La sola soglia che possiamo permetterci” insiste Ismail El Gizouli dell’Ipcc (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici) che trasmette ansia a tutti: “Oggi stiamo rischiando i 6 gradi!”

In particolare, stando alle premesse, la Cina emetterebbe 10,1 miliardi di tonnellate contro i 6,4 miliardi necessari per tornare in traiettoria (+58% dunque rispetto al target), gli Usa 4 miliardi di tonnellate contro 3 miliardi (+33%) e anche la Ue, finora la più virtuosa, potrebbe fare meglio, ad esempio con un taglio di 2,4 miliardi invece dei 2 dichiarati.

Responsabilità di chi? Su questa terna di paesi “grandi emettitori” gravano le maggiori responsabilità. Le loro mosse vengono giudicate decisive per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra o per tenerla in equilibrio se la mettiamo in termini di giustizia ambientale, visto che vaste aree del pianeta (dall’America Latina, all’India all’Africa) hanno indici bassi di emissioni e nessuna responsabilità storica da scontare, ma sono colpite ugualmente dalla crisi climatica.

Sul banco degli imputati prima di tutti c’è la Cina (e l’Occidente verrebbe da aggiungere, che la utilizza come piattaforma per le sue importazioni a basso costo). Pur essendo incasellato paradossalmente come “paese in via di sviluppo”, il continente giallo è responsabile del 30% circa delle emissioni mondiali di gas serra, percentuale in crescita. Un cambiamento di atteggiamento, tuttavia, del governo cinese – consapevole che un bambino che vive in città è come se fumasse 40 sigarette al giorno e non ha nessuna possibilità di recupero davanti a sé – fa sperare in un impegno maggiore di quanto promesso sulla carta. Il presidente Xi Jinping qualche giorno fa ha annunciato di voler intraprendere un piano di riduzione delle emissioni dal 2017.

E passiamo agli Stati Uniti, i quali hanno accumulato un notevole ritardo non ratificando il protocollo di Kyoto. Quest’ultimo è stato rinnovato nel 2012 fino al 2020 ma oltre l’80% dei paesi partecipanti si è rifiutato di sottoporsi a vincoli. Kyoto dovrà essere superato da un nuovo protocollo, come previsto a Doha dove si concordò un calendario verso l’adozione di un patto universale sul clima entro quest’anno.

L’accordo tra Usa e Cina La latitanza degli americani che solo con Obama si sono “svegliati” dal loro sonno interessato, ha comportato una crescita di emissioni del 10% tra il 1990 e il 2012, anziché una riduzione del 7%. La buona notizia però, di pochi mesi fa, è che è stato siglato uno storico accordo bilaterale tra Cina e Usa: è la prima volta che i due paesi mettono nero su bianco che faranno retromarcia riducendo le emissioni del 26-28% entro il 2025 e del 32% al 2030. Ancora poco, visto che servirebbe un taglio del 47% per rientrare nei 2 gradi, ma gli Usa hanno mezzi e potenzialità per fare meglio, sempre se il loro Congresso lo consentirà.

La terna dei “grandi emettitori” si chiude con l’Unione europea. La quale ha raggiunto il target fissato dal protocollo di Kyoto (-19% di emissioni nel 2012 rispetto al 1990) conseguendo in anticipo anche quello al 2020. In vista di Parigi, gli europei si sono posti l’obiettivo di una riduzione del 40% al 2030 sul 1990, traguardo che sarebbe in linea con i due gradi; inoltre un +27% dei consumi energetici soddisfatti da fonti rinnovabili e un risparmio tendenziale di energia del 27%. Buoni propositi sì, ma per Edo Ronchi “le soglie si potrebbero alzare ancora e l’obiettivo andrebbe assicurato con ripartizioni nazionali vincolanti“.

Il budget a nostra disposizione è ormai limitato, il tempo sta per scadere. Due terzi dei 3.000 miliardi di tonnellate di CO² equivalente sono già stati “sparati” nell’aria. Rimane un ultimo terzo, che con i trend attuali di inquinamento verrebbe superato prima del 2040. A quel punto, una volta detto addio ai 2 gradi, che sarebbero imprendibili, avremmo un pianeta del tutto instabile e fuori controllo. E, forse, come sogna l’astrofisico Stephen Hawking, staremmo facendo le valigie per lasciare la Terra e trasferirci altrove…

novembre 2015

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