“Sono ormai 18 anni che nel mondo si coltivano prodotti Ogm, ovvero gli Organismi geneticamente modificati. Sul totale il 90% è da fatto soia, colza, mais e cotone. Da 1 milione e 700 mila di ettari coltivati nel 1996 si è arrivati ai 175 milioni e 200 mila ettari coltivati nel 2013. Un aumento di 100 volte rispetto al punto di partenza. Una crescita costante e impressionante che, nonostante gli investimenti miliardari e la diffusione in un numero sempre più alto di paesi (ora siamo a quota 27), non ha impedito il consolidarsi di un forte movimento di opinione pubblica che agli Ogm è decisamente contrario. Alle preoccupazioni iniziali sulla salubrità di questi prodotti, si sono sommate nel corso del tempo obiezioni più concentrate sull’impatto ambientale, sulla loro difficile coesistenza con le altre coltivazioni e soprattutto su un modello di agricoltura nemica della biodiversità e tutta incentrata su colture monoprodotto di grandi estensioni e su investimenti miliardari in mano a poche multinazionali, che sono le proprietarie dei brevetti (ovvero delle sementi).
Eppure i pro-Ogm hanno sempre difeso questi nuovi prodotti come nuova frontiera della ricerca scientifica e come opportunità nella lotta alla fame, perché meno costosi, capaci di resistere a insetti e tolleranti agli erbicidi, oltreché assolutamente privi di rischi per la salute umana. Nel rapporto 2013 dell’Isaaa (l’associazione internazionale che sostiene e promuove il biotech) si evidenzia il risparmio (in 18 anni), grazie agli Ogm, di 497 mila tonnellate di agrofarmaci e un incremento del valore della produzione agricola per 116,9 miliardi di dollari.
Ad oggi però resta il fatto che la maggioranza dei consumatori europei e italiani (ma anche negli Usa c’è una sensibilità che sta crescendo in questo senso) sono contrari agli Ogm e vogliono poter acquistare prodotti privi di queste sostanze sulla base di una informazione chiara e trasparente. E proprio sul garantire (o meno) questo diritto si gioca, oggi, uno dei nodi centrali della battaglia sugli Ogm.
In 5 paesi l’87% degli Ogm
Ma ripartiamo dagli scenari globali. Perché già nel vedere le caratteristiche del fenomeno Ogm si capiscono diverse cose. Intanto dei 175 milioni di ettari coltivati, che rappresentano circa il 12% della superficie arabile del pianeta, la stragrande maggioranza è coltivata in soli 5 paesi. Ben 70,1 milioni sono negli Usa (cioè il 90% delle colture di quel paese è legato alle biotecnologie), seguiti dal Brasile con 37 milioni di ettari, dall’Argentina con 24,4 milioni, dall’India con 11 milioni e dal Canada con 10,8 milioni. Sommati fanno 153,3 milioni su 175, cioè l’87,6%, con una fortissima concentrazione nel continente americano. Ancora dietro ci sono Cina con 4,2 milioni, il Paraguay con 3,6 e il Sud Africa con 2,9. Prima delle europee è la Spagna con appena 138 mila ettari.
Agricoltura dei monopoli
“È importante sottolineare – spiega il professor Gianluca Brunori, docente di economia agraria all’Università di Pisa – che per ora siamo ancora dentro al mondo degli Ogm di prima generazione che sono sostanzialmente 4 prodotti, soia, colza, mais e cotone, le cui caratteristiche, tolleranza agli erbicidi e resistenza agli insetti, sono quelle da anni. Da tempo si parla di Ogm di seconda generazione, che potrebbero riguardare colture come mele e pomodori. Qui bisognerà vedere quando davvero arriveranno e che caratteristiche avranno. Quel che si può dire ad oggi è che gli Ogm sono espressione di un modello agricolo, tipico degli ultimi decenni, basato sull’estrema semplificazione, cioè su pochi prodotti coltivati su superfici molto estese, sull’uso massiccio dei diserbanti e di altre risorse. Gli Ogm richiedono poi grandi investimenti e sono legati alla logica della brevettabilità delle sementi, che sono di proprietà di poche grandi multinazionali. A fronte di questo c’è da ricordare che dalla Fao (l’agenzia delle Nazioni Unite) a diversi governi, cito da ultimo quello della Gran Bretagna, si è detto che questo modello di agricoltura va cambiato, a vantaggio di soluzioni più attente alla sostenibilità e alla varietà delle coltivazioni. Dunque non più colture intensive ma, secondo lo slogan lanciato dalla Fao, “save and grow”, cioè salvare e crescere, pensando in particolare ai paesi più poveri e in via di sviluppo”.
Brunori ricorda poi come le coltivazioni Ogm, al di là delle loro possibilità teoriche, siano in gran parte destinate non all’alimentazione umana, ma a quella animale o alla produzione di biocarburanti.
Si tratta di un aspetto importante perché è evidente che, la possibilità tecnica che gli Ogm contribuiscano a combattere la fame nel mondo, è stata del tutto travolta da un modello che privilegia la miglior resa in termini di guadagno economico.
Ogm e fame nel mondo
“Gli Ogm non servono a combattere la fame nel mondo. La realtà di questi anni lo conferma in modo del tutto evidente – spiega Luca Colombo, studioso e autore del libro “Diritti al cibo” – Gli Ogm sono commodities e vanno dove li porta il mercato. Prodotti che richiedono investimenti miliardari non sono certo orientati a combattere la povertà. E del resto là dove si muore di fame il problema è che mancano acqua, soldi, mezzi per lavorare, infrastrutture, energia, educazione, o ci sono terreni che si stanno desertificando. Sono queste le barriere da abbattere”.
Un secondo aspetto complesso legato al tema Ogm è quello del rapporto con la tutela della biodiversità. Il modello Ogm prevede la brevettabilità, per cui il contadino non acquista sementi, ma la licenza di utilizzo e si impegna a non riseminare semi eventualmente avanzati. Ogni volta così si pagano le royalties a chi è proprietario ovvero a 4-5 grandi aziende che sono le regine del mercato (Monsanto soprattutto, poi Syngenta, Basf, Pioneer). In più queste aziende, dato che studiare e “costruire” un seme con caratteristiche innovative richiede investimenti stimati nell’ordine di 1 miliardo di dollari (cui vanno aggiunti oltre 400 milioni per costi di commercializzazione e adempimenti legislativi) devono rientrare dell’investimento. “È chiaro che un meccanismo di questo tipo – spiega Brunori – funziona se poi quell’unico tipo di seme viene usato su grandissime estensioni, in modo intensivo perché occorre recuperare gli enormi costi sostenuti. E questa logica porta a perdere biodiversità, perché le tante specie che esistono oggi, non vanno d’accordo con questo modello”. Basta pensare alla realtà italiana, ai tipi di prodotti così diversi e rinomati che sono la forza del nostro sistema agro-industriale.
Resta il fatto che sul piano mondiale la crescita degli Ogm pare comunque destinata a continuare (anche se magari con ritmi più lenti). Ma la vera chiave è legata alla capacità dell’industria biotech di arrivare a mettere sul mercato una nuova generazione di prodotti Ogm. Una partita nella quale sono in ballo enormi interessi. “Gli annunci fatti da colossi come la Monsanto di rinunciare a ulteriori investimenti per portare gli Ogm in Europa – spiega Brunori – vanno presi con cautela. Bisognerà vedere se saranno confermati quando la seconda generazione di Ogm sarà a disposizione. Certo l’opinione pubblica qui resta contraria e anche negli Usa cresce il movimento di chi chiede la presenza di Ogm sia specificata obbligatoriamente in etichetta. Sono segni importanti, ma guai a pensare che colossi multimiliardari si ritirino in silenzio”. Come detto dietro a questo dibattito stanno due modelli diversi di sviluppo futuro dell’agricoltura e di impegno per combattere la fame nel mondo.
Il nodo chiave (di cui abbiamo parlato anche il mese scorso su questa rivista) è se cibo e prodotti agricoli sono semplicemente delle merci da vendere secondo le convenienze del mercato o se ci sono diritti da tutelare e squilibri (tra ricchi e poveri) da ridurre.
Italia ed Europa
Dentro a questo scenario sta la vicenda italiana ed europea. E’ questa la parte di mondo dove l’opinione pubblica è in larga maggioranza contraria agli Ogm. Non li vuole mangiare e non vuole che si coltivino. Le istituzioni nazionale e continentali si sono sin qui trascinate senza prendere una decisione definitiva e chiara, ma nel contempo, sulla base di un principio di precauzione, hanno impedito o comunque rallentato lo sbarco degli Ogm nel vecchio continente (principio di precuazione confermato anche dalla recente sentenza del Tar di cui parliamo a pagina 7).
Per ora in Europa è autorizzata la coltivazione del solo mais Monsanto 810 e della patata Amflora della Basf. I paesi europei che coltivano sono la Spagna, il Portogallo, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Romania, per un totale di 148 mila ettari. Gli altri paesi, tra cui l’Italia, hanno sin qui impedito la coltivazione di Ogm.
Occorre avere ben chiaro che divieto di coltivazione è cosa diversa dal divieto di commercializzazione, nel senso che in Europa arrivano comunque abbondanti quantità soprattutto di soia Ogm, che in buona parte è utilizzata per i mangimi animali. Dunque se si vuol essere sicuri di non mangiare Ogm occorre affidarsi a chi come Coop (vedi la scheda qui sopra), garantisce e controlla l’intera filiera (partendo dai mangimi appunto per arrivare agli impianti di lavorazione), garantendo che tutti i prodotti col proprio marchio siano “puliti”.
Ma chiarito il nodo coltivazione/commercializzazione, resta il fatto che anche in Italia sul tema sì o no alle coltivazioni Ogm occorrerà arrivare a una scelta definitiva. Questo perché, specie in un paese come il nostro dove la superficie media di una azienda agricola è di appena 5/6 ettari, la coesistenza tra Ogm e colture tradizionali appare decisamente problematica.
Coesistenza impossibile
Coesistenza significa garanzia che non ci sia “inquinamento” di un tipo di coltura verso l’altra. Recenti studi della Fao a livello mondiale, ma anche i rilievi del Corpo forestale in Friuli, vicino ai campi dove si coltiva il Mais 810, parlano di decine e decine di casi di contaminazione (10% in Friuli). Contaminazione significa che col passare del tempo tutto diventa inevitabilmente Ogm.
Garantire separazione tra le colture vuol dire rispetto delle distanze, previsione di margini di sicurezza, controlli rigorosi e presenza di soggetti che poi garantiscano il rispetto di queste regole. Tutte cose che una volta definite e codificate avrebbero comunque un costo che si suppone dovrebbe essere a carico degli ultimi arrivati, ovvero i prodotti Ogm, anche in considerazione del fatto che i consumatori non chiedono proprio di poterseli ritrovare nel piatto.
Facile intuire la complessità e la delicatezza della questione. E proprio per questo il tema di definire le norme di una coesistenza possibile (teoricamente affidato alle Regioni) è esercizio che sino ad ora non ha portato ad alcun risultato.
“Ma anche alla luce di questo – conclude Luca Colombo – resta il fatto che l’Italia, con l’agricoltura di qualità che si ritrova, fatta di tanti prodotti diversi, di territori, di marchi Dop e Igp, avrebbe solo da perdere dal vedersi omologata in un mondo tutto Ogm. Portare qui gli Ogm non aggiungerebbe nulla, ma anzi ci farebbe perdere tanto”.