Gli italiani sono sempre stati grandissimi amanti della tavola e del cibo. Ma ad analizzare canali social, tv e mezzi di comunicazione vari, sembra aumentare l’attenzione alla salute e al cibo che “cura” o che non fa invecchiare.
A Massimo Montanari, docente dell’Università di Bologna e storico dell’alimentazione abbiamo chiesto cosa ne pensa di questo fenomeno e come si “difende” il cibo come piacere.
Il legame fra cibo e salute è antichissimo. In tutte le culture, gli uomini hanno sempre pensato che il primo modo per proteggere o recuperare la salute passi attraverso ciò che mangiamo. In passato questo era forse un pensiero elitario: i trattati di dietetica (che insegnavano anche cosa mangiare e come prepararlo) si rivolgevano a un pubblico scelto. Però anche a livello popolare, contadino, l’idea che la salute è anzitutto nel cibo, e che ci si cura col cibo, apparteneva alla cultura comune. Quindi non mi pare che siamo di fronte a una grande novità, se non nell’enfasi che ne danno i media e nelle paure (inedite) dei consumatori. Queste paure sono legate al fatto che nella società del cibo industriale non esiste più un vero controllo della filiera alimentare: non sappiamo chi produce, chi modifica, chi prepara ecc. Allora cerchiamo, ossessivamente, di recuperare questa conoscenza. Che un tempo era di tutti, signori e contadini. Ma il tema della salute è antico. Nuova è la paura di perdere il controllo del cibo. E da questo punto di vista il fenomeno è senz’altro positivo.
Come “difendere” le ragioni del piacere? Semplicemente recuperando antiche certezze, tipiche di tutta la tradizione gastronomica e dietetica, secondo cui il piacere e la salute non solo non si oppongono, ma, al contrario, si rafforzano a vicenda. Ciò che è buono fa bene, ciò che fa bene è buono. A patto di sapere che cosa stiamo mangiando.
Aumentano le tribù dei “senza” (senza glutine, grassi, zuccheri eccetera). Può essere una reazione anche all’abbondanza dei cibi che abbiamo a disposizione?
Non credo sia una reazione all’abbondanza. Penso piuttosto che sia una reazione a quello che ho detto un attimo fa: la paura (giustificata) di perdere il controllo di ciò che stiamo mangiando. Se l’industria mette troppe cose nel cibo, eliminarle ci sembra (anche in modo emotivamente incontrollato) un modo per salvarci. Togli, togli, togli. E “senza“, la parolina che in tutta la nostra storia significava penuria, mancanza, e spaventava, magicamente diventa un concetto positivo. Magie della storia.
Dentro a questa attenzione per il “cibo che cura e fa bene” si assiste anche a un boom nel consumo di tanti prodotti (dallo zenzero alla curcuma, dal cavolo nero ai semi di Goji e altro ancora) particolari e spesso provenienti da tradizioni lontane. È una moda o sono le contaminazioni di un mondo globalizzato che inevitabilmente aumentano?
Le contaminazioni ovviamente esistono, e ci consentono di sperimentare cose lontane. Ma è l’idea stessa del “lontano” che è suggestiva: anche nel Medioevo, le spezie che venivano dall’India parevano buone e salutari proprio perché provenienti da luoghi esotici, addirittura (pensava qualcuno) dal Paradiso terrestre, che la geografia immaginaria del tempo collocava laggiù in Oriente, ai confini del mondo. I tempi sono cambiati ma l’immaginario è sempre quello. Lontano, lontano ci sono luoghi straordinari, cibi che fanno bene più dei nostri. Questo meccanismo è molto curioso perché è esattamente il contrario del primo (quello che ci fa, oggi, diffidenti dei cibi che non conosciamo più). Ma che cosa veramente sappiamo dei cibi che nascono lontano? L’immaginario è sempre protagonista nelle scelte alimentari. C’è sempre qualcuno, o qualcosa, altrove, che ci salva. Il Paradiso (terrestre o celeste) non è forse questo?